“Cena tra amici” di A. de La Patellière e M. Delaporte

Altra sera con niente da vedere e lo zapping diventa più importante della lotteria: dove ci fermeremo per dare un senso a questa serata di svacco? Il mio cervello deve avere delle defaillance o forse è colpa della visione della terza parte de “Lo Hobbit” di ieri sera, ma tant’è anche a sto giro mi fermo su un film francese: “Cena tra amici”.

.

Commedia agro dolce in puro impianto aristotelico (unità di luogo, tempo e stessi personaggi, in soldoni), costruita sulla parola più che sugli effetti speciali e sulla caratterizzazione dei personaggi, si dipana come una vera seduta di psicoterapia collettiva catartica senza moderatore. Tutto parte da un semplice scherzo sul nome del nascituro, dalla reazione di amici-parenti, sulle convenzioni, sull’ipocrisia del perbenismo, per arrivare allo svelamento dei rapporti di queste cinque persone unite da parentela, matrimonio e amicizia. Perché alla fine ognuno di noi ha segreti nell’animo che è meglio non confessare; cose che non sopporta anche nella persona che ama; angoli bui che non si vogliono mostrare; egoismi che vediamo negli altri ma non riconosciamo in noi. Alla fine la vita di ognuno di noi, i rapporti che instauriamo non sono altro che un insieme di piccole falsità, di maschere che mettiamo per il quieto vivere, per proteggere i nostri sentimenti, per tutelare chi amiamo. La vita diventa un difficile equilibrio fra “il poter dire” e “il meglio non dire”, finché a volte non si scoppia ritrovando un nuovo equilibrio.

Se in un certo momento questo film diventa difficile catalogarlo come commedia, alla fine ci si rende conto che è davvero così, perché non si va verso un falso lieto fine, ma attraverso l’accettazione e la ricomposizione dei rapporti, rimanendo apparentemente tutto uguale.

Se fosse stato girato in Italia avremmo calcato la mano nel piagnisteo, nell’isteria, nel politicizzato, nella visione verdoniana dei rapporti, portando a una pseudocommedia trash autocommiserativa e non risolutiva. Invece qui c’è la critica politica a una visione snob e perbenista di sinistra intellettualoide (credo che in Francia il personaggio barboso sia proprio l’intellettuale politicamente schierato, ma molto a modo) etichettato dall’atteggiamento di mettere cose come post it con su scritto “sono originale”; c’è il rapporto fra coniugi con problemi di coppia visto dall’occhio della donna stanca di essere considerata utile, la quale chiede “soltanto” le scuse senza altri stravolgimenti; c’è la difficoltà di palesare un amore lecito ma fuori dalle righe, raccontato con leggerezza e intensità.

Regia: 7 Difficile da girare un film così semplice, ma i due registi si sono fatti valere dimostrando un’attenzione per i dettagli e guidando scene e attori con mano gentile e tocco sicuro.

Sceneggiatura: 8 E’ vero: i film francesi sono verbosi. Sono parolai per meglio dire. E se perdi una parola puoi stravolgere il senso del discorso, non comprendere l’ironia o il gioco delle parti. Eppure tutto ciò rende questo film perfetto, quasi vecchio stile: cura, attenzione per i tempi, il ritmo, l’intreccio dei personaggi come una partitura musicale. La traduzione italiana non sembra aver inceppato gli ingranaggi, anche se credo che nell’originale ci fossero molte più sfumature.

Scenografia e costumi: 6 Il voto è basso perché tutto si svolge nella parte giorno di una casa e devo dire che, malgrado i tantissimi libri che avrei voluto vedere toccare e leggere, non è che fosse tanto difficile. Stesso discorso per i costumi dei personaggi, anche se caratterizzati anche con abiti normali e quotidiani.

Fotografia: 6 e mezzo. Curata, precisa, ma non prende il sopravvento, lasciando intravedere con l’uso delle ombre la vita della casa e tutto quello che può attorniarla. Di sicuro è un voto basso, ma è per sottolineare il suo saper “star a posto”.

Voto: 7. Gradevole, interessante, leggermente cinico da prendermi, sicuramente un buon film che mai avrei scelto forse per il pregiudizio di trovarmi alla solita faida famigliare buona per lanciarsi i coltelli.