“Terra di sangue” di Karin Brynard

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link alla casa editrici e/o

Sulla copertina c’è la frase in alto “La Stieg Larsson del Sudafrica” Rooi Rose.

Non che io stia a badare a quelle frasi, visto che il 90% sono un po’ tirate per i capelli (guardate quella bellissima nella fascetta del nuovo fumetto di Sio, tanto per dire), ma a volte mi soffermo, mentre leggo, per capire cosa vogliano intendere. A questo giro qualcosa in comune con lo scomparso autore della saga di “Milleninum” c’è: entrambi gli autori sono andati a mettere le mani in quella faccia della luna oscura che tutti sanno esistere, ma che nessuno vuole davvero risolvere. Per Larsson era il passato nazista del nord Europa, per la Brynard è il non del tutto superamento della segregazione e del susseguente nuovo Sudafrica. Parlano di roghi di odio che covano più o meno coperti sotto la cenere di una società che deve andare avanti, come se il passato non dovesse mai ripresentarsi e quindi non essere mai esistito.

Il primo ostacolo di questo testo è capire di che colore è la pelle dei vari personaggi sulla scena e in base a quello capire come sono stati posti lì e come. Non è scontato un poliziotto di periferia bianco, ma non lo è nemmeno nero; diamo per scontato il proprietario terreno afrikaner, ma tutto attorno ci sono anche i neri. E così per ogni ruolo. In base al colore della pelle, purtroppo, si può capire il modo di relazionarsi di ognuno di loro e una parola prende un significato piuttosto che un altro.

Prendiamo Freddie, la vittima: bianca, artista, benestante, dalla parte dei più poveri, pronta a restituire il mal tolto a una popolazione indigena sfruttata secoli fa, eppure ha amici bianchi potenti e ben messi. La sorella invece sembra uscire da una qualsiasi città occidentale a maggioranza bianca, dove i confilitti al massimo sono di altra natura. Capire che l’ispettore capo Beeslaar è un corpulento bianco, dal passato difficile e con trascichi psicologici pesanti, è invece fondamentale perché attorno a lui girano, suo malgrado, tutti i rapporti di potere sia nel suo stesso distretto, con le vittime, con le presunte vittime, con quelli che vorrebbero altri colpevoli, con i suoi capi neri. Non è una vittima e nè un osso duro, ma dà quella sensazione di “mi piego, non mi spezzo e come un giunco al massimo ti colpisco in faccia”. E nello sfondo gli odi sepolti da secoli, sulla rivendicazione di quelle terre che appartengono sempre a qualcuno per diritto di una qualche divinità (scelta sempre alla bisogna e per parte).

Chi ha ucciso l’artista Freddie, nata e cresciuta nella fattoria di Huilwater, tornata per assistere il padre morente ed ereditare il patrimonio, compresa la terra? Chi ha voluto anche togliere la vita alla figlia adottiva, già di suo problematica? C’è chi parla di riti sciamani per allontanare il male da quelle terre e chi di bande di ladri di bestiame pronti a tutto. La verità invece pare essere molto più vicina alla vittima, ma anche alla sorella Sara costretta suo malgrado non solo a sistemare la successione, ma anche a investigare e trovare la verità.

Malgrado la sua mole (una piccola parte è dedicata al dizionario per capire alcuni termini usati per rendere più veritiera la narrazione e che, ovviamente, non sono di facile comprensione per chi non ha mai letto racconti di quella zona), si legge molto bene, scorrevole, senza inciampi o rischi di distraenti descrizioni. L’autrice è brava a seminare durante tutte le pagine, fra i dialoghi e le situazioni, la sua visione della società del sudafrica, in zone di confine con altri stati e parchi nazionali protetti: è un’Africa non pacificata, divisa non solo o non tanto per il colore della pelle e per la convizione che quella porti un retaggio irremovibile, ma anche dalla visione di come si vuole convivere con la natura e con gli altri.

Eppure alla fine non è che mi abbia entusiasmato. Certo, la sufficienza se la porta abbondantemente a casa, ma alla fine mi è sembrato quasi di leggere un racconto di cronaca nera più che un thriller in cui, volutamente, sono stati sparsi elementi anche oscuri (come il conflitto “spirituale” fra le diverse forme di scamanesimo e preghiera o i movimenti di estrema destra in azione). La differenza con Larsson per esempio è proprio nella capacità di far percepire al lettore il vero pericolo che rischiano di incorrere i protagonisti: in questo libro solo verso la fine, quando oramai si era anche capito chi avesse fatto cosa e perché, la vita di Sara rischia di finir male, ma in modo quasi scontato. Non so, mi ha dato quella sensazione di non voler calcare la mano e nel farlo di non averlo fatto per nulla lasciando situazioni troppo superficiali. Anche perché di elementi interessanti, misteriosi ce ne sono e sarebbero anche stati interessanti, pur non facendo deragliare la storia su binari morti o inutili.

Voto 6 e mezzo.

Consigliato a chi volesse leggere un thriller ambientato in zone lontane, senza sembrare troppo esotico da parer finto, e anche per chi sotto una vicenda nera inventata volesse cercare di capire come viene descritta una società molto lontana da noi, con grandi conflitti sociali.

Scheda tecnica

traduttore (dall’inglese) Silvia Montis

titolo originale “Weeping Waters”

anno di pubblicazione 2009

casa editrice Editrice e/o

stampato luglio 2018 presso Arti Grafiche La Moderna di Roma

copertina © David Yarrow Photography/Getty

grafica  Emanuele Ragnisco http://www.mekkanografici.com

pagine 539

prezzo €19,00

 

 

“Il nascondiglio” di Pupi Avati

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https://www.librimondadori.it/autore/pupi-avati/

Quanti di voi conoscevano l’Avati scrittore? Quanti di voi conoscono Pupi Avati? Sembrano due domande facili, da rispondere con un sì o con un no, ma in realtà danno l’idea di quanto questo autore sia davvero più complesso di quanto il suo santino faccia intuire. Perché parlo di santino? Perché come ogni personaggio di un certo spessore in Italia si dà per scontato di sapere chi sia e soprattutto è sempre grandissimo e sempre al massimo. Io non conoscevo la sua versione di scrittore e anche come regista non posso dirmi una sua esperta. Eppure Avati ha uno stile inconfondibile, una sorta di marca di dna, una sorta di inprinting di terra. Avati è un emiliano e chi ha mai vissuto in Emilia lo può riconoscere. Parlo di parte, perché io sono emiliana per buona parte della mia genetica e credo che farei molta fatica a staccarmi da queste zone. Queste sono zone che se ci nasci, ti rimangono dentro come l’umidità e le zanzare, ma anche come il cibo e le case colorate, le storie del Grande Fiume e quelle della seconda guerra mondiale; è una terra di ricchezza, fertile e obesa di sapori e colori (anche se non sembra, ma anche la nebbia è colore), ma anche di sangue sparso. Faccio fatica a raccontarvi questa mia terra senza sentire nelle orecchi le tiritere del “c’avete solo la nebbia” con coro da stadio da chi qui non c’è mai stato e non ha capito come sia una terra magica e pericolosa nello stesso tempo. Tutto questo miscuglio di porte aperte con la chiave sopra, di resdore che tirano la pasta (ma anche certi ceffoni che ti rigirano) di uomini pronti ad andare dai campi al lavoro, dalle biciclette e i tabarri, tutto ciò è insito in una certa epica di Avati. Certo stiamo parlando di un’Emilia che non esiste più, soppiantata dal progresso, ma nello stesso tempo rimane dentro nel momento in cui ti fermi a mangiare torta fritta (no, lo gnocco è a Reggio Emilia e non è la stessa cosa, come la tigella e poi fino alla piadina in Romagna. Possibile che non vediate quanto sono diversi?) e salumi e lambrusco nella tazza, fino a trovare la propria confort zone in un piatto di tortellini in brodo (tutto il resto è eresia) e via andare…adesso mi è venuta fame…

Torniamo al libro. Tutto questo lungo escursus emiliano serve a far capire come questo sottofondo sia ben presente da “La casa dalle finestre che ridono” a questo “Il nascondiglio”, con nebbie, silenzi, cibo, case abbandonate, donne forti e donne misteriose. Questo è un libro di donne. Donna è la protagonista, donne lo sono i fantasmi, donna è l’avvocato che cerca di aiutarla finalmente, mentre gli uomini rimangono come comprimari o colpevoli, ma sempre secondari, impacciati, tentati di imporsi con vecchi metodi collaudati del potere  e della corruzione. E da quel che ricordo non è la prima volta che Avati propone personaggi femminili molto più importanti e di spessore di quelli maschili: possiamo parlare di un femminismo del regista? E se sì, di che tipo?

Il libro parla di una donna dimessa da un ospedale psichiatrico a seguito della morte per suicidio del marito. Ella è rimasta dentro per anni, cercando di curare il suo continuo sentire le voci, ma alla fine viene dichiarata guarita; va a vivere in una cittadina dell’Iowa in una vecchia casa soprannominata “Snakes Hall”, rimasta chiusa dopo un efferato omicidio di due donne e la scomparsa di altre due donne (in ogni coppia c’era anche una suora). Ovviamente nessuno le dice nulla prima. Ovviamente la casa è un bellissimo rudere da rimettere a posto, ma che sembra che con quattro mani di vernice torni tutto a posto in un attimo. Ovviamente nessuno ha fatto una serie indagine e tanto meno un controllo della casa. Ovviamente niente è come sembra e quando lei invece di sentirsi ancora pazza, decide di indagare, ovviamente nessuno l’aiuta ma anzi. Quell’ “ovviamente” che ho più spesso ripetuto non vuol essere un avverbio di noia o di già visto, ma in effetti la scansione degli eventi e delle situazioni e dei personaggi che si avvicendano sono alquanto già visti e rivisti e prevedibili, ma questo non toglie la bravura, o forse la scaltrezza, dell’autore di scrivere un racconto biografico surreale, di una certa bassa (come quella americana assomiglia a quella bolognese!), di sapori e suoni che non possono essere che italiani, che incuriosisce e si fa ben leggere.

Questo libro non è un capolavoro, ma il suo stile secco stringato, cinematografico (e molte altre recensioni lo hanno notato ma con connotazione negativa), fanno di questo nostro qualcosa che val la pena di leggere. Avati non si perde in chiacchiere, non fa giri di parole, descrive in modo secco e conciso quello che vuole che il lettore veda; quello che non descrive forse non è così importante e tanto vale che faccia da sè il lettore. A mio parere non è un difetto, ma mi da l’idea di una chiarezza di visione della situazione, una padronanza del mezzo si direbbe, la capacità di non far distrarre. Per buona parte della storia il lettore sa più della protagonista e come al solito non può intervenire, poi si chiede perché e cerca di indagare per arrivare in fine alla risoluzione del caso. Non voglio aggiungere di più perché spiegare cosa succede significa togliere la suspance che c’è che in realtà non è molta. Il vero orrore qui non è il mostrone o il paranormale, ma è quello che va oltre il normale, quella sensazione di mistero, di manipolazione delle persone, di sopravvivenza oltre al vivere. E’ qualcosa di strano che diventa difficile dirvi senza svelarvi il finale.

Ultima annotazione. Ho parlato di biografia in questa recensione e non ho sbagliato o meglio non sono stata del tutto corretta. In fondo al libro Avanti svela un carteggio fra lui e una signora riguardante una oscura faccenda accaduta tanti anni prima: da questo carteggio egli avrebbe tratto, liberamente, questo libro e poi il film omonimo. Mah…su questo aspetto, come ho detto altra volta, rimango molto perplessa e non so se sia una sensazione a pelle (spesso ci azzecco) o mia scarsa fiducia nel genere umano scrivente.

Voto: 6 e mezzo. Si legge in pochissimo e bene, ma non aspettatevi di essere terrorizzati da non poter stare da soli, ma aspettatevi di girare per la bassa (qualunque) e di sperare di non sentire certe voci o esere toccati da certe mani.

A chi lo consiglio: a chi ama la bassa italiana che poi non è altro che bassa in buona parte del mondo occidentale, con le sue specifiche, ma molto simile a se stessa; a chi cerca un “mondo piccolo” che non rassicura.

Scheda tecnica

anno di pubblicazione: 2007

editore: Oscar Mondadori, piccola biblioteca

stampato presso Mondadori Printing S.p.A. a Milano nello stabilimento NSM a Cles (TV). Printed in Italy

pagine 124

prezzo € 8,40

copertina: foto© W. Eugene Smith/ Time & Life Pictures / Getty Images / Laura Ronchi

in quartina: foto© Nicolas Guerin / Corbis

progetto grafico: Giacomo Callo

graphic designer: Wanda Lavizzari

 

 

“Nostalgia del sangue” di Dario Correnti

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Link al sito della Giunti

Questo è uno di quei libri che stanno girando sui social, molto osannati dai book blogger e quindi sta avendo un gran successo; anche io sulla loro scia, o meglio convinta dalle recensioni entusiastiche e dalla disponibilità in biblioteca, mi sono messa a leggerlo. E a me non ha convinto. Ecco, detto subito alle prime righe come mio solito. Vi prego continuate a leggere la recensione.

La trama è abbastanza lineare. Nella bassa lombarda o meglio bergamasca si aggira probabilmente un serial killer che si rifà alle imprese di sangue di Vincenzo Verzeni, primo serial killer italiano che proprio in quelle zone aveva agito fra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento. Un imitatore? Un redivivo omicida? Un erede? Nessuno lo sa, anche perché all’inizio nessun giornalista ne aveva colto il collegamento, se non una giovane e sfigata stagista giornalista che invece la cosa l’aveva vista. Informata la prima penna di questo famosissimo giornale milanese, dove anche lei lavora, i due, Marco Besana e Ilaria Patti, partono alla caccia. Fra vecchie scartoffie, mitomani e sfasati vari, riescono a tirare le fila dell’intricata matassa e arrivare al colpevole.

Bon, fine. Fatta.

In realtà il problema è come ci arrivano. Prima di tutto con troppe pagine e capitoli troppo corti. A volte narrativamente ci sta cambiare spesso inquadratura e situazioni, a volte da proprio il senso dell’azione e della fretta, ma qui non è proprio così. Il libro è lento, per quanto succedano un sacco di cose (forse anche un po’ troppe), si incastrano personaggi e vicende personali che alla fine, stranamente, non distolgono troppo dagli eventi ma sono mal disposte. Partiamo con i due più grossi difetti che io ho trovato:

  1. la marea di “gossip” giornalistico o di spiegazione di come è il mondo della carta stampata;
  2. la vicenda di Ilaria.

Nel primo caso tutta questa marea di informazioni su come si vive in quell’ambiente, degli sgambetti, di chi si fa chi e perché (ovviamente con nomi inventati o anonimi), con il “grande giornale milanese” senza nome dove si svolge la vicenda, su tv e carta stampata, le prime donne e le stagiste e le penne di grido, sono tutte distrazioni inutili. Un po’ fa colore e scenografia, ma spesso rallenta e spezza il ritmo e annoia terribilmente. Capisco che serva a inquadrare una parte della trama e dei personaggi secondari, ma anche no! Stringere, tagliare e sintetizzare.

Il secondo punto invece è la lampante dimostrazione di come un editor stronzo avesse dovuto agire. Che la nostra giovane giornalista in erba abbia un segreto oscuro alle spalle si capisce subito. Se fosse una persona viva glielo leggeresti in faccia. Mentre scrivo mi è venuto in mente il personaggio di Chloe Saint Laurent di “Profiling“, serie tv francese trasmessa qualche tempo fa da FoxCrime: strana, eccentrica, dotata come psicologa, ma che, attraverso i gesti, lascia trasparire un dramma famigliare abbastanza pesante. Nel nostro libro il dramma è un uxoricidio bello e buono a cui la piccola Ilaria ha vaghi ricordi e pessimi effetti collaterali. Non posso dire che l’idea si copiata o già sentita, ma la resa è lagnosa: il personaggio tira per le lunghe il suo malloppone di dramma (che, oh, ci sta che lo sia e che sia difficilmente digeribile, ma…lagnaaaaaa), si ammanta di aurea di vittima e lì rimane, ma con l’istinto del riscatto. Insomma è un personaggio altalenante e ondivago che a me ha fatto venire la stanchezza: o molli o rischi e se rischi affronti, perché tanto la cosa è successa e non si torna indietro e lagnarsi non fa risorgere le persone morte. Mi direte che probabilmente è un primo romanzo di una serie e forse vedremo evolvere il personaggio in un qualcosa di più definitivo…può essere, ma se devo basarmi su questo testo io credo che la stessa vicende, le stesse paure, le stesse lagne potessero essere descritte in modo meno noioso. Ha allungato troppo il brodo, come me ora per spiegarvi la noia.

E poi arriva lui alla fine: lo spiegone.

SPOILER. LEGGETE A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO. FORSE.

Infine i nostri due eroi dipanano la vicenda e capiscano chi sia l’omicida, mentre a noi rimangono alcuni dubbi sul perché ma lo sappiamo benissimo che qualcuno ci metterà sotto il naso tutto, Ilaria decide di darsi alla pazzia, saltare il fosso e andarlo a prendere. Ecco, queste son le cose che un po’ ti fan cadere le braccia: ma porcalamiserialadra, proprio ora dovevi darti una regolata e rischiare? Razza di scriteriata, non sai manco vestirti e vuoi affrontarlo? Vi prego, Darwin pensaci tu. E invece no, non interviene Charles, ma lo spiegone.

Che cosa è lo spiegone? Dicesi spiegone quel momento in cui il cattivo in una posizione di forza sul nostro eroe, invece di ucciderlo e guardare in camera e lo spettatore e rider loro in faccia, perde tempo e spiega tutto logicamente sul suo operato. Lo spiegone permette al nostro eroe di trovare la limetta che gli permetterà di salvarsi, le forze dell’ordine arrivare, il supereroe risorgere, la marina sbucare dal tubo del water e i demoni dell’inferno andare in massa a rinnovare il ticket del parcheggio. E tu spettatore, a cui forse mancavano alcuni dettagli ma avevi capito tanto, tu ti guardi attorno e dici due semplice parole: “Ma veramente?”. Non è tanto legato al fatto che “ma veramente è successo così”, quanto piuttosto al “ma veramente sta perdendo tempo e si sta sfuggendo la vittima?”. Per me quel momento è demoralizzante e secondo me è il bollino di non qualità di un giallo. I gialli, i thriller, i noir sono complicati; se fossero facili li scriverebbero i bambini. Sono complicati perché devi svelare il perché e farlo in modo convincente; se usi il mezzo dello spiegone vuol dire che non sai più come risolvere la faccenda, che hai fatto un passo di troppo, che hai voluto strafare e non sai più come risolvere senza uccidere qualcuno a cui tenevi in qualche modo. Quindi a questo punto qualcuno non è intervenuto e secondo me un buon editor stronzo, visto comunque il materiale buono e ben scritto doveva rimandare indietro quel pezzo con un bel “lo spiegone no! Non lo avevamo considerato!”.

Voto: 6. Detto questo, non posso che dare piena sufficienza, perché è ben scritto, scorrevole (l’ho letto in due giorni che per me è un buon segno di capacità affabulatoria), ma i difetti li ho percepiti come inciampi veri. Ci sono elementi extra indagine, tipici dei gialli moderni, come la vita privata di Besana che fanno colore senza prendere il sopravvento e lui e Ilaria sono una bella coppia lavorativa, sperando che non diventino una coppia amorosa.

Mi è piaciuta anche l’ambientazione, ricordando agli appassionati di gialli italiani che la bassa lombarda è terra di omicidi, nebbia, polenta, buon vino e gente stramba. E a noi ci piace così.

Ultimo dettaglio curioso: si vede che l’autore si è documentato sulla cronaca nera e cita molti casi italiani e non solo che arrichiscono la narrazione, rendendola un po’ più credibile di un qualsiasi giallo, ma e dico ma sono buttati lì un po’ come se si facesse vedere che ha studiato.

Questa è un’opera prima di una coppia di autori che deve ancora amalgamarsi bene dietro lo pseudonimo di Dario Correnti? Mah. Forse. Può essere.

Consigliato: a chi ama i gialli italici, senza troppe cose assurde, con belle indagini logiche e su più piani, ma che non ha troppe pretese di essere stupito.

Scheda tecnica

anno di pubblicazione: 2018

Editore: Giunti

stampato gennaio 2018 presso Elcograf S.p.A., stabilimento di Cles

pagine 535

prezzo € 19,00

copertina: foto elaborata ©Alina Zhidovinova/ Trevillion Images

progetto grafico: Rocio Isabel Gonzales

“La sostanza del male” di Luca D’Andrea

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Recensione di anobii

Quando leggo un libro, qualsiasi libro, la mia mente inizia a pensare a un voto, un numero per esattezza da 0 a 10, come a scuola; lo faccio perché mi viene naturale, perché è un modo per metabolizzare quello che sto provando durante la lettura, quale è il mio rapporto con la storia. Ovviamente il genere del libro mi tara sul voto e spesso sui saggi mi viene spontaneo esprimermi in termini letterari (buono, eccellente, da dimenticare), mentre la narrativa di qualsiasi tipo mi fa sorgere i numeri. Qui ho dato i numeri ed è stato in calare purtroppo.

Avevo prenotato il libro dopo che in un gruppo di fb di lettori di genere thriller erano rimasti entusiasti della lettura anche se notavano qualche pecca che non hanno giustamente voluto rivelare: lo spoiler funziona nei post quando si avvisa (sì, lo so che tecnicamente così non è più spoiler), in altro modo è solo pura stronzaggine per rovinare la visione a un altro. Certo a volte lo fai a fin di bene, a volte sei solo stronzo. Vabbè, procediamo. Leggo pochi italiani, senza un vera motivazione credibili, e leggo pochissime prime uscite ma solo per casualità: cerco storie che mi convincano e di solito nel tempo mi sono persa talmente tante di esse che mi tocca “recuperare”. “La sostanza del male” è del 2016 e di un italiano: tutto poteva portarmi a detestarlo o a trovare qualcosa che mi facesse allineare con gli altri lettori sul pezzo (come se poi questa cosa mi interessasse davvero..).

Il libro parte bene, ha un impianto non italico, sembra quasi un thriller americano. Un bene, un male? Non so, forse da quell’idea di più ampio respiro che leggere della borgata, del paesino, del mare o della montagna, pizza e mandolino. Questo ampio respiro poi ci porta nel nostro Sud Tirolo e ho pensato che raramente mi era capitato di leggere di quella regione come protagonista o come ottima scenografia. Abbiamo un duo di documentaristi sulla cresta dell’onda e abbiamo una tragedia…ho pensato che fosse un po’ troppo per un inizio, ma la stessa è comprimaria della vicenda e alla fine la si accetta. Dalla tragedia si passa al “solito” passatempo nascosto da parte del protagonista che per quanto non sia un uomo d’azione è un uomo di pensiero e di costruzione di storie: una strage, un fatto sanguinoso che sporca il passato del paese e che nessuno ha mai risolto o voluto davvero risolvere.

Il nostro protagonista, scrittore e investigatore della domenica, invece rischia tutto (e quando dico tutto, intendo quello che viene ritenuto caro per lo stesso, quindi la famiglia), non dice nulla alla moglie, indaga, viene pestato, pesta piedi. E tutto mentre cerca di nascondere sotto il tappeto i casini che fa…ovviamente senza riuscirci.

A questo punto il dipanarsi dell’investigazione mi fa letteralmente stare attaccata al libro e per quanto il mio sonno vinca su tutto, ho smesso di fare altre distrazioni per due giorni e ho letto. Buon segno, mi dico, non deludermi. La lettura si tiene su un buon 8 e mezzo di media: scrittura veloce, senza troppi fronzoli e descrizioni precise puntali; il libro si segue e si immagina benissimo senza salti del montaggio: quando la mia fantasia mi fa vedere quello che accade allora vuol dire che va bene. Dai, ce la possiamo fare, si sfata un mito (pochi autori italiani mi convincono).

La trama avanza e inizia ad arrancare. Inizia a mettere troppa carne sulla brace (carne grossa grossa e antica tanto): perizie, contro perizie, costruzioni, speculazioni, soccorso alpino nascente, famiglie e tradizioni. Ok siamo in montagna, in una qualsiasi nostra provincia italica dove sono più attive le vecchie storie che il wi-fi. Quell’arrancare mi fa subito suonare i campanelli d’allarme, però posso ancora sbagliarmi perché la scrittura non perde colpi, fluisce benissimo, il controllo si vede e forse sono state limate cose ma poco. Mi piace. Poi zoppica vistosamente e la trama inizia a infittirsi, ma soprattutto il nostro protagonista inizia a essere poco realistico. Perché se per buona parte della storia le donne e gli uomini si muovono e agiscono, per quanto spinti da desideri esasperati o a volte sopra le righe (nella narrativa come nei fumetti le regole sono chiare: uomini e donne sono verosimili e non reali, i fatti sono sempre un po’ sopra la normalità, non si stanno raccontando biografie di uomini e donne banali), in modo credibile, citando fatti e situazioni credibili, quindi quando si tirano le somme, si fa il nome dell’assassino e il movente questa regola deve essere rispettata. Invece no. A tre quarti del libro il voto inizia vorticosamente a decadere: da 8 e mezzo si scivola velocemente a 6, per poi concludersi con la fine a un pietoso 5/6. E una domanda: ma chi lo ha controllato, letto, corretto bozze ha creduto che la fine fosse davvero al pari con il resto? O io sono troppo pretenziosa (come mi sento spesso) o chi lo ha letto ha detto che “ma sì, può andare”. Non dico che il libro o la trama non vadano bene così, ma ho come avuto la sensazione che l’autore abbia chiesto troppo, buttato su tanta roba buona e poi avesse avuto paura di chiuderlo con un finale “banale” e quindi ha volutamente esagerato mandando in vacanza la logica umana che, per quanto fallace, certe cose non le fa (tipo che se non sei speleologo e ti butti in una grotta in inverno, se ne esci vivo fai il giro dei santuari di tutte le divinità e non te ne torni a valle sano e salvo. Io sarei morta. Punto. E mi avrebbero anche infamato. E a ragione).

Spiace veramente arrivare a dare un voto appena sotto la sufficienza per non aver creduto nella linea narrativa intrapresa per buona parte del libro. Davvero peccato.

voto: 5/6 Non so nemmeno se consigliarlo davvero, di certo prenderlo in biblioteca è un buon passo per sostenere il servizio, ma non va in aiuto alle librerie, però non mi ha convinto del tutto e mi sento defraudata di una buona conclusione.

Scheda tecnica

anno di pubblicazione:

edizione: Einaudi, Stile libero BIG

finito di stampare: giugno 2016, per conto della casa editrice Einaudi presso ELCOGRAF S.p.A., stabilimento di Cles (TN)

progetto grafico di Riccardo Falcinelli

copertina: elaborazione da foto © Layne Kennedy / Corbis / Contrasto e Steve Collender / Shutterstock

pagine 451

Incontro letterario con Jeffrey Deaver

Parma è una città strana: sonnacchiosa, silenziosa (nel senso che se deve comunicare qualcosa di culturale tende a farlo il meno possibile o comunque lo sai dopo, il giorno dopo sulla Gazzetta, mai prima…mai per tempo…), snob, con manie da grandi città ma ancora l’aspetto della provinciale. Ci crediamo un sacco, ma purtroppo, al di là del cibo, al di fuori del nostro ducato ci si conosce solo per il calcio (e i fallimenti), i bond argentini e tanta cronaca nera. Un tempo eravamo anche un centro culturale con i nostri bar in centro che ospitavano gente del calibro di Guareschi, ma poi ci siamo persi per strada e ora in centro c’è la vasca (il nostro concetto di struscio) dove esibire i macchinoni o portare figli piccoli o cani vari per taglia a fare la sfilata.

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Jeffrey Deaver

Eppure sotto il cuore letterario cova ancora. Basta pensare al Regio (ah, non ci pensate troppo che poi salta fuori la politica invece di pensare al Festival Verdi…ah no, non pensate nemmeno a quello che poi salta fuori il governo…ma che palle!). Comunque sia, lunedì sera alla Casa della Musica c’era Jeffrey Deaver. Sì, lui. Punto. Ma che ci faceva a casa mia? Beh presentava, ed era l’ultima tappa del tour, il suo ultimo libro: Il bacio d’acciaio.

 

Arrivo in centro, dopo aver trovato un parcheggio comodo, più o meno all’ultimo minuto facendo affidamento che tutti, soprattutto in queste occasioni, si avvalgono dell’opzione dei “15 minuti accademici”, insomma del ritardo, del farsi aspettare, del far riempire la sala. Beh, questa ultima cosa non era poi tanto necessaria, perché ho trovato un posto per fortuna, mascherato da occupato da una giacca appoggiata. Mi guardo attorno aspettandomi un tipo di pubblico e invece…no, aspetta, ma chi mi aspettavo io? Non saprei dirlo, ma forse qualcosa che non fosse l’impressione della Parma bene un po’ fighetta. Forse mi aspettavo più un pubblico di giovani scrittori nerd o di casalinghe che non si perdono una puntata di “Quarto Grado” e invece ho “scoperto” che l’animo oscuro e che sfrucuglia nel torbido si maschera bene sotto giacca e cravatta e completo grigio gonna/pantalone. A fianco a me due signori giovani e ben distinti discutevano dell’ultimo libro appena letto, mentre io appoggiavo sulle ginocchia due vecchi libri dell’autore da farmi firmare. E quello è stato il primo punto che mi ha confermato che sono una blogger non professionista e atipica (che in questo caso non voleva essere un pregio).

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i RAB4

La serata inizia con l’apertura musicale dei RAB4 che non conoscevo e non comprendevo la motivazione. Non mi addentro nella critica musicale perché lo strafalcione è dietro l’angolo e non se lo meritano, visto che sono stati bravi e coinvolgenti, ma senza prendere la scena all’autore. In realtà l’arcano si svela poco dopo: uno dei musicisti è Seba Pezzani traduttore e amico di Deaver. Nel blog “Cinema scritto” ho trovato un’interessante intervista che voglio riproporvi a questo link in modo che anche voi abbiate a conoscerlo meglio. A posteriori avrei dovuto o voluto fare un po’ di domande anche a lui, chiedergli l’autografo (uno dei libri che avevo lo aveva tradotto e me lo aveva anche segnalato, ma io non ho immagazzinato il dato…scema…e non professionale…) e fargli i complimenti per la musica (magari vedere anche dove comprare un cd). Comunque sia, seguiteli che val la pena se cercato un certo tipo di musica ben fatta e dosata.

 

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Torniamo al nostro autore. Deaver è pacato, essenziale, sornione, preciso come i suoi libri dove le sue parole sono sempre calibrate e messe al posto giusto per farti tornare indietro al primo colpo di scena per dire “ma cavoli, era davvero qua davanti ai miei occhi!”. Ha un tono di voce di quelli che ascolteresti per ore con un sottotono basso e qualche nota incisiva più alta; conduce l’ascoltatore con maestria, senza mai strafare, buttando qua e là una battuta che lo renda più umano e più simile a noi; gioca metaforicamente a tennis con intervistatore (Luca Ponzi) e traduttore facendo trasparire una certa famigliarità; mantiene comunque il distacco con tutti o forse è una mia sensazione vedendolo così pacato. Più che raccontare il libro, racconta di sè come scrittore, come narratore e “padre” di determinati personaggi e si scopre un Deaver più “umano”: alla fine non sembra che sia la cronaca nera il suo vero interesse, ma fare sì che il lettore continui il processo di scrittura ritrovando i personaggi che ama e seguendo la vicenda. Otto mesi di ricerca con post it sulla lavagna e nel mezzo idee buttate nel cestino, fino ad arrivare al libro che voleva scrivere così come è uscito (non siamo riusciti a fargli dire se ce ne era uno di cui non era molto convinto, ma alla fine ci sta che difenda tutti i suoi libri). Veniamo a sapere che i diritti d’autore su alcuni sui libri sono stati dati in modo che diventino film o serie televisive. Insomma una chiacchierata informale, rilassata, interrotta da buona musica e poche domande dal pubblico. Alla fine si ferma a firmare gli autografi su tutti i libri, prestandosi alle foto, accennando sorrisi e stringendo le mani a tutti i suoi lettori (lo fa lui spontaneamente). Certo, direte, è il suo lavoro. Sì e no. Non

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tanta pazienza…

tutti gli scrittori capiscono che solo al fatto di avere lettori hanno la possibilità di godersi la vita; non tutti gli scrittori per carattere si prestano a queste cose che sono marketing; non tutti gli scrittori arrivati a un livello alto ricordano che dal basso son arrivati ed è un attimo che possano tornarci (a volte basta la recensione sbagliata di un critico o di un blogger a rovinare certe carriere). In Deaver non c’è nulla di affettato, ma tutto è posato, accettato e compreso, forse anche perché stare in mezzo alla gente gli permette di vederla e capirla (ha accennato a questa cosa, ma non ho compreso se lo intendesse in senso analitico oppure antropologico). Comunque sia me ne sono tornata a casa con due libri firmati (uno per me e uno per mia mamma) e una buona serata di cultura.

 

A conclusione di questa serata ho capito che se voglio andare a un incontro letterario mi devo preparare: non basta macchina fotografica e cellulare su instagram. Ok, voi direte “ma lo hai capito ora dopo tanto tempo che hai aperto il blog?”, ma diciamo che questa cosa è una di quelle che ho sempre schivato preferendo il libro allo scrittore (poi vi spiegherò un giorno sta cosa), la storia allo scrivere. Quando però succedono queste cose, di incontrare chi ci appassiona, beh ci devo andare preparata. Punto. Grazie Deaver anche di questo.

E buon ricerca dell’assassino a tutti!

“Un passo di troppo” di Lee Child

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Mia madre se ne va al mare e mi lascia questo libro da riconsegnare alla biblioteca con la frase: “Si legge bene, fai tempo a leggerlo.” E io mi fido. Peccato che pur leggendosi bene, in realtà la trama lascia molto a desiderare o più che altro quello che sta attorno alla trama scarna.

La trama è interessante: gruppi paramilitari, un rapimento, qualcosa non quadra e quindi l’investigazione inizia.

Qui iniziano le prime falle: il protagonista Jack Reacher. Il personaggio è bello, ben strutturato, ma non si capisce perché un gruppo chiuso di paramilitari o ex militari per il solo fatto che riconosca in lui un ex militari si fidi di lui a tal punto da affidargli la ricerca della moglie e della figliastra del capo. Non ha senso, ma ce ne faremo una ragione. Anche perché tutto questo libro è un patto fra scrittore e lettore, ma non è il primo e non sarà l’ultimo.

Il patto fra lettori è un classico per certi thriller, soprattutto per quelli che non possono stare al passo del tempo reale, non possono aspettare, perderebbero il ritmo, i protagonisti potrebbero rischiare di diventare degli impiegati. Non è un male della letteratura, lo capisci subito e se subito riesci ad accettarlo allora la lettura sarà un vero passatempo, se no solo una borsite cronica.

La storia si dipana fra ricordi di missioni in Africa finite male, parenti di ex mogli scomparse pronti a cercare vendetta, investigatori disillusi fra questa e l’altra parte dell’oceano. E questa parte funziona benissimo, riuscendo a dosare bene il continuo altalenarsi di buoni e cattivi: funziona perché è credibile, perché dosa bene le informazioni per creare suspance e mettere il lettore in condizione di dover tutte le volte ricredersi, mantenendo fisso Reacher come ipotetico narratore.

Poi l’autore ci deve mettere in mezzo un’inutile storia d’amore fra il protagonista e una bella e volitiva investigatrice privata. Perché? Perché? Perché? Citando qualcuno di ben più grande di me, mi vien da dire: “che noia, che barba, ma io so’ stufa, sai!” Questa storia è di nessun aiuto per lo svolgersi della vicenda, forse lo sarà per quella del protagonista (forse questo è uno dei tanti libri  con lui come centro), e soprattutto distrae nella sua noia; aumenta il numero delle pagine (e qui mi viene sempre il dubbio sul compenso dato all’autore…) senza motivo; non porta a nulla nella vicenda. Avesse lasciato i due così, come due amici, come due persone di sesso diverso che si capiscono per la forza e il coraggio e per lo scopo comune e invece lo stereotipo di uomo-donna-sessoforseamore si è impossessato anche di Child. Non c’è coraggio nemmeno in certi scrittori titolati, tutti a cercare il già scritto così il lettore non deve pensare troppo.

Potendo togliere questo pezzo il libro rimane godibile, forse prolisso in certi passi, ma di sicuro interessante. Ecco, se fosse stato scritto da un altro autore, qualcuno di più spregiudicato e greve, sarebbe stato un gran bel giallo, ma qui invece a malapena si arriva alla sufficienza. Mi spiace proprio, ma è così: voto 5 e mezzo.

“Il paradiso degli orchi” di Daniel Pennac

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Primo libro di Pennac e devo dire che se la lettura non mi ha travolto di certo mi ha entusiasmata. La motivazione è molto semplice: lo scrittore ha uno stile molto particolare e mi sono resa conto nel procedere la lettura che questo è un libro che non si può interrompere perché devi fare altro, ma che va letto tutto d’un fiato o quasi. Questo è un pregio o un difetto, non lo saprei dire, ma la forma colloquiale e mentale con cui la vicenda si dipana, come i personaggi vengono mostrati nella loro particolarità, come l’investigazione viene svelata prevede un diverso modo di rapportarsi.

Ammetto che la curiosità di leggere questo libro ha avuto due impulsi: da una parte il film uscito quest inverno e che mi incuriosiva, dall’altro il consiglio di due amici di cui stimo l’originalità nella scelta di film e libri (è gente con cultura, ma non con intellighenzia…). Mi sono regalata il libro per Natale come compensa per i regali non andati del tutto a segno (e ho fatto una buona scorta di libri, quindi rassegnatevi perché troverete spesso questa motivazione) e devo ammettere che mi ha colpito anche la copertina di questa edizione. La copertina è di Jacques Tardi disegnatore francese molto prolifico oltrealpe e molto quotato, ma in italiano poco conosciuto (tocca dire che non è una cosa strana nel nostro paese dove il fumetto non è un’arte, ma una robaccia da ragazzini decerebrati).

La vicenda è molto semplice, ma nello stesso complicata in tutte le sue sfumature. Ben Malaussène è il fratello maggiore di una complicata famiglia dove la madre è assente e lui è il tutore di una serie di fratelli e sorelle minori dai poliedrici talenti e curiosità; per mantenere la famiglia lavora in un Grande Magazzino come “capro espiatorio”. Tutto fila liscio finché una serie di attacchi con bombe sul suo posto di lavoro lo trova coinvolto in prima persona sia nell’indagine che nel tenere a freno tutta la sua strampalata famiglia (senza contare un estroso amico/zio e un cane indipendente ed epilettico).

Alla fine questo libro è un giallo atipico o un thriller non giallo e nemmeno nero, ma se lo avesse raccontato Grangè sarebbe riuscito a sviscerare le pieghe più sordide del delitto, esagerando a più non posso, pur di aumentare la morbosità, mentre in mano a Pennac ogni elemento non solo suona logico e accettabile, ma anche il male trova la sua collocazione e non giustificazione. L’autore non parteggia nemmeno per un momento per il cattivo, pur descrivendolo con la stessa assurdità del resto dei personaggi, ma condanna a piene mani la motivazione per cui agisce, eppure lo fa in un modo così credibile, da cronaca, che al lettore non rimane l’ansia da prestazione.

La parte più bella del libro è la famiglia Malaussène che oscilla fra ansie di anormalità, Orchi di Natale, foto di ogni particolare della vita, racconti fantastici e predizioni di morte. Oserei dire troppo per una famiglia sola, ma alla fine come si farebbe senza Clara che guarda la vita attraverso l’obbiettivo della Leica (gran macchina) e riesce a metabolizzare ogni cosa; senza Therèse e la sua capacità di accettare ogni cosa spirituale nella sua visione chiara del paranormale mentre senza dare disturbo (oserei dire almeno lì) batte a macchina ogni momento della famiglia; senza Jeremy nella sua normalità di adolescente indifferente alla scuola, ma curioso di qualsiasi altra cosa; o senza il Piccolo e i suoi disegni natalizi. Certo non potremo fare a meno di Julius, il cane, che alla fine anche se sconvolto dalla malattia, è quello che risulta più quadrato di tutti. E attorno a loro Louna, l’unica sorella ad aver abbandonato il nido, ma a richiedere le attenzioni di Ben; la “Zia Julia” e la sua forte carica erotica; Theo oscillante fra debolezze, stereotipi omossessuali e l’ottimo gusto per i vestiti. Una famiglia che malamente la quarta di copertina della mia edizione definisce “disneyana”, ma che in realtà ha quel gusto del paradosso tipicamente francese dove l’originale trova il suo posto rendendo colorato tutto il mondo attorno.

Da questo libro mi è rimasta la curiosità di voler sapere le altre avventure della famiglia, ma in generale devo ammettere che il libro non mi ha rapito come mi avevano preventivato. Sottile, arguto, assurdamente divertente, ma non un fenomeno comico e socialmente strabiliante.

“Non voltarti indietro” di Linwood Barclay

Ho impiegato un po’ a leggere questo libro, perché non essendo stata nei termini di lettura della biblioteca ho dovuto richiedere il prestito e quindi aspettare un po’ di mesi. Vabbè. Malgrado questo inconveniente ricordavo perfettamente la vicenda iniziata e più o meno anche il punto in cui ero rimasta.

La vicenda sarebbe semplice: un giornalista, bravo padre e marito, con la sua vita normale, inizia a investigare in un caso di corruzione per la costruzione di una prigione privata. Inizia l’investigazione e poi la moglie scompare e nessuno gli crede, anzi viene indagato per omicidio. La sua fortuna è che non viene incarcerato, ma tutta la vicenda avviene nei pochi giorni di sparizione e pre incarceramento (o meglio quello che vorrebbe fare il capo della polizia locale, mentre alla fine l’investigatore incaricato inizia ad avere qualche dubbio). E qui la faccenda si incasina parecchio e mi viene da dire che troppa carne al fuoco è stata messa.

Da un lato c’è il caso giornalistico con tanto di corruttore che impersonifica il cattivo senza morale. Da un altro c’è il giornale, di provincia e mal messo economicamente, con piccoli squali di colleghi o capi reparto. Da un altro ancora c’è la moglie che poi non si sa cosa, chi e perché (o meglio il marito non lo sa, mentre noi lettori seguiamo anche la vicenda di lei) e allora c’è una indagine privata. Da un altro ancora c’è il passato e le conseguenze sul presente. Insomma davvero troppa carne al fuoco per un unico libro. Non dico che alla fine ci siano delle cose tirate per i capelli, ma la vicenda del corruttore ha un finale assurdo, mentre quella principale è purtroppo un po’ tirata, come se le pagine fossero finite e l’autore dovesse rimanere entro un tot di pagine (che poi sono davvero tante: 470).

In più ho avuto la sensazione di un “già letto” ricordandomi molto il libro “Il prossimo sarai tu” di Gregg Hurwitz. In entrambi i libri i protagonisti maschili devono affrontare un passato imprevisto, un presente pericoloso e devono cavarsela fra assassini e affaristi senza scrupolo.

Alla fine dopo tanti commenti non proprio positivi, perché dargli la sufficienza? Perché il libro si legge velocemente, prende il lettore e non è troppo complesso. E’ vero che ci sono tante cose, ma tutte vengono dipanate in modo logico e lineare e non si deve cercare nel pensiero la tal parola detta dal personaggio di sfuggita a cui non si è dato troppo peso. Non è un libro di investigazione seduti in poltrona, ma è lo svelamento di un mistero che, suo “malgrado”, coinvolge gente senza scrupoli e svela che le persone mentono per i più bassi e banali desideri.

Voto: 6 +